martedì 28 settembre 2010

Psicologia e teoria psicoanalitica


L’ENIGMA CHE SIAMO
"<< Ho passato trent’anni a scavare nelle coscienze, nel grande mistero dell’uomo, >> mi confida un neuropsichiatra << ma le zone buie sono ancora molto più vaste di quelle che mi pare d’avere rischiarato.  Un giorno viene da me un uomo con il braccio destro paralizzato. Era una paralisi isterica, non provocata da un trauma, da un incidente, ma da un’alterazione di nervi. L’avevano già curato alcuni miei colleghi, senza risultato. Decido di trattarlo con l’ipnosi. Tanto per spiegarmi con te, che di medicina non sai niente, ti dirò che volevo convincerlo, sotto il trattamento d’ipnosi, a rendersi conto che il braccio non era malato e che, per recuperarlo, sarebbe bastato trasmettergli l’ordine di muoversi. Così è stato infatti. Una guarigione rapida, quasi miracolosa. Il mio cliente guardava muoversi il suo braccio e piangeva per l’emozione. Bene, neanche dieci giorni dopo quell’uomo timido e quieto va a casa, apre il cassetto in cucina, prende un coltello con venti centimetri di lama e lo pianta nel ventre della moglie. Hai capito che cosa era successo? >>
Rispondo di no, che non ho capito niente, che mi sembra solo il delitto di un pazzo. << Eh no, >> riprende il medico << la faccenda è più complessa. Quell’uomo da tempo odiava la moglie e nell’inconscio aveva già stabilito di ucciderla. La paralisi era stata, senza che lui lo sapesse, la sua difesa. Insomma, il delitto gli ripugnava, ma, terrorizzato dal pensiero di poterlo compiere in un momento di follia, aveva bloccato con la paralisi il braccio destro. Ed ora, recuperato il braccio, tolto il freno che la coscienza gli aveva misteriosamente imposto, aveva ucciso. Vedi che enigma siamo? >>”
 Vittorio Buttafava: "La fortuna di vivere - Taccuino", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1982, Pagg. 79 - 80 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1981) 

"Abbiamo dentro, tutti, una ferita piccola o grande che non osiamo scoprire, che ci farebbe gridare di dolore solo a sfiorarla. Meglio lasciarla lì, nel silenzio, in attesa che diventi una cicatrice."
Vittorio Buttafava: "Una stretta di mano e via", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1978, Pag. 30 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1976) 


"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."
La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277), si riferisce alle difficoltà relazionali tra  una madre e un figlio coivolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.
E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.
L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto. 
A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.



LE FASI DELLO SVILUPPO PSICOSESSUALE  SECONDO LA TEORIA FREUDIANA

Alla nascita il bambino possiede solo l’Es. Perciò i più piccoli vogliono e basta. Presto però si sviluppa l’Io e il bambino impara a controllarsi in relazione al mondo esterno e a pianificare le strategie di appagamento dei desideri. Il primo nucleo del Super-Io invece si forma solo verso i 3 – 4 anni, quando il bambino comincia ad interiorizzare i valori dei genitori e dell’ambiente sociale.
Nel corso dello sviluppo non si assiste solo alla comparsa dell’Io e del Super-Io, ma anche a trasformazioni nel funzionamento dell’apparato psichico. In conseguenza soprattutto della maturazione biologica, si sposta la fonte delle stimolazioni in grado di risvegliare le pulsioni di ’Eros. Il bambino ora è più sensibile alle stimolazioni piacevoli che vengono ora da una parte del corpo ora dall’altra e orienta diversamente la sua carica libidica. Secondo Freud si succedono cinque fasi psicosessuali, in ciascuna delle quali è investita una specifica zona corporea.
1)   Fase orale (0 – 1 anno) Il centro di piacere è la zona orale: lingua, cavo orale. E’ il periodo dell’allattamento. Il bambino, secondo Freud, in questa fase sviluppa attaccamento per la persona che soddisfa le sue pulsioni orali, di regola la madre.
2)   Fase anale (1 – 3 anni) E’ il periodo in cui il bambino impara a controllare gli sfinteri. L’ano diventa sensibile perché l’innervazione di quella zona sta maturando per consentire il controllo volontario dei muscoli. Anche fatti sociali contribuiscono a concentrare l’attenzione del bambino in quell’area del corpo, perché i genitori cominciano a chiedergli di trattenere i suoi bisogni fisiologici e decidere il momento per espletarli.
3)   Fase fallica (3 – 5 anni) La sensibilità si sposta sui genitali. Il fenomeno più importante di questo periodo è il complesso di  Edipo, descritto in maniera convincente per i maschi e più fumosa per le femmine. Il bambino comincia a vedere vagamente nella madre un oggetto sessuale. Non si tratta di pensieri e propositi precisi, ma di sentimenti sfumati, essenzialmente inconsci. Il padre, che può accedere al corpo della madre con una facilità a lui non concessa (ad esempio, dorme con lei), appare una specie di rivale in amore. Tuttavia è anche figura potente, da temere, che può punirlo e persino castrarlo. Perciò il bambino è combattuto tra principio del piacere e desiderio della madre da una parte e dall’altra principio di realtà e rispetto del padre. Come reazione di difesa, per vincere l’ansia che ne deriva, si identifica con il padre e cerca di diventare come lui, nei pensieri e nei comportamenti. Così si sente sicuro, perché lo asseconda e ne assume la forza. E’ qui che comincia l’interiorizzazione dei valori adulti e si forma il primo nucleo di coscienza morale, del Super-Io.
4)   Fase di latenza (5 – 12 anni) E’ un periodo di calma, di ricomposizione e preparazione all’ondata evolutiva successiva.
5)   Fase genitale  (12 – 18 anni) La pubertà risveglia l’interesse sessuale. Il grande cambiamento di questo periodo è lo spostamento all’esterno del proprio corpo della parte di eccitazione, che porta all’amore eterosessuale e alla sessualità matura.

Il percorso verso la maturità sessuale non è scontato e privo di problemi. In ciascuna fase occorre un giusto grado di gratificazione, le pulsioni non devono trovare scarsa soddisfazione, né troppa. Altrimenti si può avere fissazione: il bambino continua a investire quella zona corporea anche andando avanti con gli anni.
Lo sviluppo psicosessuale per Freud condiziona non solo la sfera specifica della sessualità, ma tutto il mondo affettivo dell’individuo e la formazione della personalità. Ad esempio, una persona che si è fissata in fase orale, da adulta potrà essere un fumatore o mangiare molto e ingrassare. Continua a cercare soddisfazione con la stimolazione orale e questo influisce sui suoi comportamenti, le scelte che fa e la personalità. […]
Considerata nel suo complesso, la teoria di Freud va lasciata così com’è: meglio prenderla come una descrizione suggestiva dell’esperienza psicologica, che può fare da ricca fonte di suggerimenti per la ricerca, e non come una vera e propria teoria scientifica. Più che teorie scientifiche, infatti, produce una lettura della realtà osservata (soprattutto esperienze cliniche e di malattie mentali e psicoterapia) secondo un dato linguaggio, uno dei tanti modi di raccontare la realtà.

(Brano tratto da: Adele Bianchi – Parisio Di Giovanni: “Psicologia in azione”, Paravia Bruno Mondadori Editore, Torino, 2000, pgg. 438, 439, 440.)

Psicologia e teoria psicoanalitica

L’ENIGMA CHE SIAMO
"<< Ho passato trent’anni a scavare nelle coscienze, nel grande mistero dell’uomo, >> mi confida un neuropsichiatra << ma le zone buie sono ancora molto più vaste di quelle che mi pare d’avere rischiarato.  Un giorno viene da me un uomo con il braccio destro paralizzato. Era una paralisi isterica, non provocata da un trauma, da un incidente, ma da un’alterazione di nervi. L’avevano già curato alcuni miei colleghi, senza risultato. Decido di trattarlo con l’ipnosi. Tanto per spiegarmi con te, che di medicina non sai niente, ti dirò che volevo convincerlo, sotto il trattamento d’ipnosi, a rendersi conto che il braccio non era malato e che, per recuperarlo, sarebbe bastato trasmettergli l’ordine di muoversi. Così è stato infatti. Una guarigione rapida, quasi miracolosa. Il mio cliente guardava muoversi il suo braccio e piangeva per l’emozione. Bene, neanche dieci giorni dopo quell’uomo timido e quieto va a casa, apre il cassetto in cucina, prende un coltello con venti centimetri di lama e lo pianta nel ventre della moglie. Hai capito che cosa era successo? >>
Rispondo di no, che non ho capito niente, che mi sembra solo il delitto di un pazzo. << Eh no, >> riprende il medico << la faccenda è più complessa. Quell’uomo da tempo odiava la moglie e nell’inconscio aveva già stabilito di ucciderla. La paralisi era stata, senza che lui lo sapesse, la sua difesa. Insomma, il delitto gli ripugnava, ma, terrorizzato dal pensiero di poterlo compiere in un momento di follia, aveva bloccato con la paralisi il braccio destro. Ed ora, recuperato il braccio, tolto il freno che la coscienza gli aveva misteriosamente imposto, aveva ucciso. Vedi che enigma siamo? >>”
 Vittorio Buttafava: "La fortuna di vivere - Taccuino", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1982, Pagg. 79 - 80 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1981) 

"Abbiamo dentro, tutti, una ferita piccola o grande che non osiamo scoprire, che ci farebbe gridare di dolore solo a sfiorarla. Meglio lasciarla lì, nel silenzio, in attesa che diventi una cicatrice."
Vittorio Buttafava: "Una stretta di mano e via", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1978, Pag. 30 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1976) 


"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."
La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277), si riferisce alle difficoltà relazionali tra  una madre e un figlio coivolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.
E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.
L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto. 
A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.



LE FASI DELLO SVILUPPO PSICOSESSUALE  SECONDO LA TEORIA FREUDIANA

Alla nascita il bambino possiede solo l’Es. Perciò i più piccoli vogliono e basta. Presto però si sviluppa l’Io e il bambino impara a controllarsi in relazione al mondo esterno e a pianificare le strategie di appagamento dei desideri. Il primo nucleo del Super-Io invece si forma solo verso i 3 – 4 anni, quando il bambino comincia ad interiorizzare i valori dei genitori e dell’ambiente sociale.
Nel corso dello sviluppo non si assiste solo alla comparsa dell’Io e del Super-Io, ma anche a trasformazioni nel funzionamento dell’apparato psichico. In conseguenza soprattutto della maturazione biologica, si sposta la fonte delle stimolazioni in grado di risvegliare le pulsioni di ’Eros. Il bambino ora è più sensibile alle stimolazioni piacevoli che vengono ora da una parte del corpo ora dall’altra e orienta diversamente la sua carica libidica. Secondo Freud si succedono cinque fasi psicosessuali, in ciascuna delle quali è investita una specifica zona corporea.
1)   Fase orale (0 – 1 anno) Il centro di piacere è la zona orale: lingua, cavo orale. E’ il periodo dell’allattamento. Il bambino, secondo Freud, in questa fase sviluppa attaccamento per la persona che soddisfa le sue pulsioni orali, di regola la madre.
2)   Fase anale (1 – 3 anni) E’ il periodo in cui il bambino impara a controllare gli sfinteri. L’ano diventa sensibile perché l’innervazione di quella zona sta maturando per consentire il controllo volontario dei muscoli. Anche fatti sociali contribuiscono a concentrare l’attenzione del bambino in quell’area del corpo, perché i genitori cominciano a chiedergli di trattenere i suoi bisogni fisiologici e decidere il momento per espletarli.
3)   Fase fallica (3 – 5 anni) La sensibilità si sposta sui genitali. Il fenomeno più importante di questo periodo è il complesso di  Edipo, descritto in maniera convincente per i maschi e più fumosa per le femmine. Il bambino comincia a vedere vagamente nella madre un oggetto sessuale. Non si tratta di pensieri e propositi precisi, ma di sentimenti sfumati, essenzialmente inconsci. Il padre, che può accedere al corpo della madre con una facilità a lui non concessa (ad esempio, dorme con lei), appare una specie di rivale in amore. Tuttavia è anche figura potente, da temere, che può punirlo e persino castrarlo. Perciò il bambino è combattuto tra principio del piacere e desiderio della madre da una parte e dall’altra principio di realtà e rispetto del padre. Come reazione di difesa, per vincere l’ansia che ne deriva, si identifica con il padre e cerca di diventare come lui, nei pensieri e nei comportamenti. Così si sente sicuro, perché lo asseconda e ne assume la forza. E’ qui che comincia l’interiorizzazione dei valori adulti e si forma il primo nucleo di coscienza morale, del Super-Io.
4)   Fase di latenza (5 – 12 anni) E’ un periodo di calma, di ricomposizione e preparazione all’ondata evolutiva successiva.
5)   Fase genitale  (12 – 18 anni) La pubertà risveglia l’interesse sessuale. Il grande cambiamento di questo periodo è lo spostamento all’esterno del proprio corpo della parte di eccitazione, che porta all’amore eterosessuale e alla sessualità matura.

Il percorso verso la maturità sessuale non è scontato e privo di problemi. In ciascuna fase occorre un giusto grado di gratificazione, le pulsioni non devono trovare scarsa soddisfazione, né troppa. Altrimenti si può avere fissazione: il bambino continua a investire quella zona corporea anche andando avanti con gli anni.
Lo sviluppo psicosessuale per Freud condiziona non solo la sfera specifica della sessualità, ma tutto il mondo affettivo dell’individuo e la formazione della personalità. Ad esempio, una persona che si è fissata in fase orale, da adulta potrà essere un fumatore o mangiare molto e ingrassare. Continua a cercare soddisfazione con la stimolazione orale e questo influisce sui suoi comportamenti, le scelte che fa e la personalità. […]
Considerata nel suo complesso, la teoria di Freud va lasciata così com’è: meglio prenderla come una descrizione suggestiva dell’esperienza psicologica, che può fare da ricca fonte di suggerimenti per la ricerca, e non come una vera e propria teoria scientifica. Più che teorie scientifiche, infatti, produce una lettura della realtà osservata (soprattutto esperienze cliniche e di malattie mentali e psicoterapia) secondo un dato linguaggio, uno dei tanti modi di raccontare la realtà.

(Brano tratto da: Adele Bianchi – Parisio Di Giovanni: “Psicologia in azione”, Paravia Bruno Mondadori Editore, Torino, 2000, pgg. 438, 439, 440.)

lunedì 20 settembre 2010

Alla ricerca di un piacere infinito

Dopo aver letto attentamente le tracce integrali dei testi assegnati per la prima prova degli esami di stato conclusivi dei corsi di studio d'istruzione secondaria superiore avrei escluso subito la maggior parte delle tracce, che nn mi hanno particolarmente attirato. Le uniche due tracce che mi hanno incuriosito sono state quella sul piacere e quella sulla musica. La musica mi ha sempre appassionato fin da piccola ma essendo più informata sull'argomento del piacere averi scelto proprio quest' ultimo. Durante l'anno scolastico abbiamo affrontato l'argomento su Giacomo Leopardi e la sua concezione filosofica: La teoria del piacere. Avrei scelto questa traccia perchè l'argomento sul piacere mi ha colpito molto. Inoltre dato il bagaglio di informazioni che ho acquisito durante l'anno avrei potuto soffermarmi su diversi aspetti che abbiamo studiato; uno dei quali potrebbe essere la ricerca infinita di piacere da parte dell'uomo e il suo desiderio illimitato.

domenica 19 settembre 2010

Esame di stato? tipologia A, senza alcun dubbio.

tra le tracce fornite per l'esame di stato dell'anno 2010, nessuna ha particolarmente catturato la mia attenzione. Non avendo grandi conoscenze riguardo ai temi trattati, tranne che per il testo riguardante il piacere (Leopardi e il suo pessimismo sarebbero tornati molto utili!) che per quello a carattere generale per il quale avrei potuto agganciare diversi pensieri frammentati, avrei scelto la tipologia A, l'analisi del testo di Primo Levi. credo che attraverso la lettura delle informazioni date, del brano stesso, della consegna e avendo una minima conoscenza dell'autore e delle sue opere, sarei comunque riuscita a trarre un buon tema, completo e in gran parte, spero, esauriente, anche se non ricchissimo di informazioni aggiuntive.

La musica, una ragione di vita

Dopo aver letto le tracce integrali dei testi assegnati per la prima prova degli esami di stato conclusivi penso che avrei scelto il tema di origine generale : La musica.
Avrei scelto questo tema perchè la musica è parte integrante della mia vita, è un argomento che ha molta importanza per me perchè mi aiuta a superare ogni ostacolo, mi fa sentire bene rendendomi felice anche nei giorni più difficili. Quando la ascolto è come se vivessi in un altro mondo, mi libera la mente e mi aiuta a mettermi in contatto con il mio io più profondo.
La musica mi da sensazioni diverse in base a dove, come e quando la ascolto: mi fa pensare, mi fa svagare, mi fa divertire, mi fa sorridere e spesso mi fa versare anche delle lacrime, ed è proprio per questo che mi piace, riesce sempre a stupirmi facendomi provare sensazioni uniche e indimenticabili.
Per me è la forma d'arte più bella che sia stata creata dall'uomo, ha una forza insuperabile poichè, come affermava il filosofo Aristotele può essere utilizzata per usi molteplici, ed oltre a questo è in grado di unire popoli molto diversi fra loro in un unico suono rendendoli una cosa sola.

mercoledì 15 settembre 2010

"Lettera a un bambino mai nato"

ORIANA FALLACI: “LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO”, Rizzoli, Milano, 1975



A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne

Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. E’ stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore. E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. Cerca di capire: non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non è paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. E’ paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre. Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato. Mi sono sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando “Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”. La vita è una tale fatica, bambino. E’ una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? […]
Darei tanto perché tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo.
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell’acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ciò sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d’avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione. […]
Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d’accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: “Ah, se fossi nata uomo!”. Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicar l’assassinio di un uomo e di una donna. […] Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante. E’ un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. […] Avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio  rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. E’ solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. E per superare quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuovi scopi. […]

*  *  *


 Ma se nascerai uomo io sarò contenta lo stesso. E forse di più perché ti saranno risparmiate tante umiliazioni, tante servitù, tanti abusi. Se nascerai uomo, ad esempio, non dovrai temere d’essere violentato nel buio di una strada. Non dovrai servirti di un bel viso per essere accettato al primo sguardo, di un bel corpo per nascondere la tua intelligenza. Non subirai giudizi malvagi quando dormirai con chi ti piace, non ti sentirai dire che il peccato nacque il giorno in cui cogliesti una mela. Faticherai molto meno. […] Potrai disubbidire senza venir deriso, amare senza svegliarti una notte con la sensazione di precipitare in un pozzo, difenderti senza finire insultato. Naturalmente ti toccheranno altre schiavitù, altre ingiustizie: neanche per un uomo la vita è facile, sai. Poiché avrai muscoli più saldi, richiederanno di portare fardelli più pesi, ti imporranno arbitrarie responsabilità. Poiché avrai la barba, rideranno se tu piangi e perfino se hai bisogno di tenerezza. Poiché avrai una coda davanti, ti ordineranno di uccidere o essere ucciso alla guerra ed esigeranno la tua complicità per tramandare la tirannia che instaurarono nelle caverne. Eppure, o proprio per questo, essere un uomo sarà un’avventura altrettanto meravigliosa: un’impresa che non ti deluderà mai. Almeno lo spero perché, se nascerai uomo, spero che sarai un uomo come io l’ho sempre sognato: dolce coi deboli, feroce coi prepotenti, generoso con chi ti vuol bene, spietato con chi ti comanda. […]
Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uomo non significa avere una coda davanti: significa essere una persona. […] Se sarai una persona di cuore e di cervello, ricordalo, io non starò certo tra quelli che ti ingiungeranno di comportarti in un modo o nell’altro in quanto maschio o femmina. Ti chiederò solo di sfruttare bene il miracolo d’essere nato, di non cedere mai alla viltà. E’ una bestia che sta sempre in agguato, la viltà. Ci morde tutti, ogni giorno, e son pochi coloro che non si lasciano sbranare da lei. In nome della prudenza, in nome della convenienza, a volte della saggezza. Vili fino a quando un rischio li minaccia, gli umani diventan spavaldi dopo che il rischio è passato. Non dovrai evitare il rischio, mai: anche se la paura ti frena. […]
Forse è troppo presto per parlarti così. Forse dovrei tacerti per ora le brutture e le malinconie, raccontarti un mondo di innocenze e gaiezze. Ma sarebbe come attirarti in un inganno. Sarebbe come indurti a credere che la vita è un tappeto morbido sul quale si può camminare scalzi e non una strada di sassi, bambino. Sassi contro cui si inciampa, si cade, ci si ferisce. Sassi contro cui bisogna proteggersi con scarpe di ferro. E neanche questo basta perché, mentre proteggi i piedi, c’è sempre qualcuno che raccoglie una pietra per tirartela in testa.

*  *  *

Sono una donna che ha scelto di vivere da sola. Tuo padre non sta con me. E non me ne dolgo sebbene, ognitanto, il mio sguardo cerchi la porta da cui egli uscì, col suo passo deciso, senza che io lo fermassi, quasi non avessimo più nulla da dirci.

*  *   *
Stanotte ho parlato con tuo padre. Gli ho detto che c’eri. Gliel’ho detto al telefono perché si trova lontano e, a giudicare da quello che ho udito, non gli ho dato una buona notizia.  Ho udito, anzitutto, un profondo silenzio: neanche fosse caduta la comunicazione. E poi ho udito una voce che balbettava, roca: “Quanto ci vorrà?”. Gli ho risposto senza capire: “Nove mesi, suppongo. Anzi meno di otto, ormai”. E allora la voce ha smesso di essere roca per diventare stridula: “Parlo di denaro”. “Che denaro?” ho replicato. “Il denaro per disfarsene, no?” Sì, ha detto proprio “disfarsene”. Neanche tu fossi un fagotto. E quando, più serenamente possibile, gli ho spiegato che avevo tutt’altra intenzione, s’è perduto in un lungo ragionamento dove le preghiere si alternavano ai consigli, i consigli alle minacce, le minacce alle lusinghe. […] Io sorridevo, quasi divertita. Però mi sono divertita assai meno quando, incoraggiato dal fatto che ascoltassi zitta, ha concluso che la spesa potevamo sostenerla a metà: dopotutto eravamo “colpevoli entrambi”. Mi ha colto la nausea. Mi sono vergognata per lui. E ho abbassato il ricevitore pensando che un tempo lo amavo.

*  *  *

Io vi disprezzo. E disprezzo me stessa per non saper fare a meno di voi, per non gridarvi più spesso: siamo stanche d’esservi mamme. Siamo stanche di questa parola che avete santificata per il vostro interesse, il vostro egoismo. […] La maternità non è un dovere morale. Non è nemmeno un fatto biologico. E’ una scelta cosciente. Questa donna aveva fatto una scelta cosciente, e non voleva uccider nessuno. Era lei che voleva ucciderla, signor dottore, negandole perfino l’uso del proprio intelletto.

ORIANA FALLACI: “LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO”, Rizzoli, Milano, 1975

Brani tratti dalle pagine 7, 8, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 84, 85, 86

I PROMESSI SPOSI (LA MONACA DI MONZA)

“I PROMESSI SPOSI”

CAPITOLO IX (SINTESI)



Questo capitolo si divide in tre parti. La prima è occupata dal viaggio notturno in baroccio verso Monza, dove i tre fuggiaschi, ovvero Renzo, Lucia e Agnese (la madre di Lucia), arrivano all’alba dell’11 novembre 1628 e dove, preso alloggio in una locanda, fanno colazione. E’ l’ultima volta che i due promessi sposi stanno insieme: li attende infatti una lunga separazione. Mentre Renzo parte per Milano, il barocciaio, seguendo le istruzioni di fra Cristoforo, conduce Agnese e Lucia presso il convento dei cappuccini.

La seconda parte riguarda l’incontro di Agnese e Lucia con la monaca di Monza, Gertrude, chiamata la Signora. Il personaggio della monaca di Monza è modellato sulla figura storica di Marianna de Leyva, vissuta tra il 1575 e il 1650, nipote del primo governatore spagnolo di Milano, costretta dalla famiglia a farsi monaca assumendo il nome di suor Virginia. La vicenda di Gertrude recupera in molti punti le pagine dedicate a suor Virginia dallo storico milanese Giuseppe Ripamonti nell’opera “Historiae Patriae” che raccontano la relazione tra suor Virginia e Giovanni Paolo Osio, i delitti di quest’ultimo, il processo ai due amanti, sino alla morte di Osio, e il pentimento della “signora”, favorito da un colloquio con il cardinale Borromeo.

Il padre guardiano che dirige il convento dei cappuccini pensa infatti di rivolgersi a lei perché ospiti le due donne nel monastero. Avuto un assenso di massima, Agnese e Lucia sono ammesse alla presenza della strana Signora (“Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.”), che rivolge alla ragazza alcune domande imbarazzanti circa il tentativo di seduzione messo in atto da Don Rodrigo. D’altronde il modo di vestire e di agire della monaca presenta aspetti irrituali e rivela un carattere sofferente, inquieto, irascibile e superbo (“- Siete ben pronta a parlare senz’essere interrogata, - interruppe la signora, con un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. – State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli!”).

La terza parte del capitolo è occupata, per analessi, dalla storia di Gertrude, dal momento della nascita a quello della sua prima entrata in monastero a sei anni fino a quello del ritorno a casa, per un mese, otto anni dopo. E’ la storia di una monacazione coatta. Il padre vuole indurla a farsi monaca in modo da lasciare tutto il patrimonio al primogenito. Gli errori di Gertrude (che, fra l’altro, scrive una lettera d’amore a un paggio, intercettata dal padre) fanno nascere in lei un senso di colpa che favorisce la sua capitolazione di fronte alla implacabile volontà paterna.

(“Si paragonava allora con le compagne […] Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti.” “Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto.” “L’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.”)



“I PROMESSI SPOSI”

CAPITOLO X (SINTESI)



In questo capitolo continua, sin quasi alla fine, la storia di Gertrude. Vi si possono distinguere due diversi momenti: il primo va dalla lettera al padre alla monacazione, mentre il secondo racconta la vita della Signora al monastero e la tresca con Egidio. Il capitolo si conclude ponendo termine all’analessi e tornando a Lucia e Agnese.

Nel primo momento il principe padre rivela tutta la sua sciagurata abilità nell’approfittare di qualunque cedimento della figlia per imporle la propria volontà; così interpreta subito la lettera di Gertrude come una dichiarazione di adesione alla prospettiva conventuale, e chiama immediatamente come testimoni di essa il figlio e la moglie in modo da compromettere pubblicamente la ragazza. Poi Gertrude viene condotta al convento per la richiesta di accettazione e qui, come ipnotizzata dallo sguardo del padre, chiede di vestire l’abito religioso. Infine conferma anche al vicario la sua intenzione di farsi monaca. Così sfuma ogni occasione che avrebbe potuto utilizzare per opporsi al padre, e non le resta che entrare per sempre in convento. (“Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere di una mano ruvida sur una ferita.” “A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente.” “Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di risentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.”).

Il secondo momento rappresenta l’inquietudine e l’insofferenza della ragazza una volta divenuta monaca. Nominata maestra delle educande, si sfoga con loro, ora con eccessivo rigore e quasi con crudeltà, ora, invece, con sfrenato cameratismo. Da’ inizio poi a una tresca amorosa con un giovane dissipato, Egidio, che abita in un palazzo confinante con il convento. (“Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. […] Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.”

“Historiae Patriae”: “Era contigua al monastero una casa, la cui parte posteriore e nascosta si affacciava su un cortiletto, dove le educande si ricreavano e giocavano durante i momenti di svago. Il padrone della casa, giovane e ricco e ozioso, guardando spesso da quella parte, mise gli occhi per caso su di una e ebbero colloqui amorosi. Ma presto questa, siccome ormai era da marito, fu condotta dai suoi fuori dal monastero e fu data in moglie a qualcuno. Il seduttore, essendogli stato tolto questo pascolo per gli occhi e lo svago all’ozio, rivolse alla maestra quella specie di amore e di passione che aveva concepito dall’intimità con l’allieva. Né ci volle molto. Trovarono facilmente la via per la colpa, a cui si arriva tanto vicino partendo da sentimenti e colloqui di quel tipo. Per alcuni anni la faccenda rimase segreta: e traforata una parete e aperto un accesso coniugale nella camera da letto della signora, agirono con libertà quasi coniugale: furono generati dei figli.”).

Una conversa che l’aveva scoperta viene uccisa dai due amanti, trasformandosi poi, nel rimorso che assilla la sventurata, in fantasma persecutorio. (“Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva muoversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non ebbe mai!”).

Un anno dopo il delitto, Lucia e Agnese arrivano al convento. La digressione è chiusa. Lucia è stupita delle domande insistenti che la Signora le fa su don Rodrigo e su Renzo, ma la madre le dice di non preoccuparsi: i signori son tutti un po’ matti.





I Promessi Sposi - "Il sugo della storia"

"[…] Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furono tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro.

Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere” . E cent’altre cose.

Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, “e io,” - disse un giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me. Quando non voleste dire,” aggiunse, soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettervi a voi.”

Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.

La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.



Tratto da “Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Capitolo XXXVIII”