mercoledì 15 settembre 2010

"Lettera a un bambino mai nato"

ORIANA FALLACI: “LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO”, Rizzoli, Milano, 1975



A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne

Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. E’ stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore. E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. Cerca di capire: non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non è paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. E’ paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre. Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato. Mi sono sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando “Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”. La vita è una tale fatica, bambino. E’ una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio? […]
Darei tanto perché tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo.
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell’acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ciò sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, ad esso ci si abitua come al fatto d’avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione. […]
Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d’accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: “Ah, se fossi nata uomo!”. Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicar l’assassinio di un uomo e di una donna. […] Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante. E’ un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. […] Avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio  rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. E’ solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. E per superare quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuovi scopi. […]

*  *  *


 Ma se nascerai uomo io sarò contenta lo stesso. E forse di più perché ti saranno risparmiate tante umiliazioni, tante servitù, tanti abusi. Se nascerai uomo, ad esempio, non dovrai temere d’essere violentato nel buio di una strada. Non dovrai servirti di un bel viso per essere accettato al primo sguardo, di un bel corpo per nascondere la tua intelligenza. Non subirai giudizi malvagi quando dormirai con chi ti piace, non ti sentirai dire che il peccato nacque il giorno in cui cogliesti una mela. Faticherai molto meno. […] Potrai disubbidire senza venir deriso, amare senza svegliarti una notte con la sensazione di precipitare in un pozzo, difenderti senza finire insultato. Naturalmente ti toccheranno altre schiavitù, altre ingiustizie: neanche per un uomo la vita è facile, sai. Poiché avrai muscoli più saldi, richiederanno di portare fardelli più pesi, ti imporranno arbitrarie responsabilità. Poiché avrai la barba, rideranno se tu piangi e perfino se hai bisogno di tenerezza. Poiché avrai una coda davanti, ti ordineranno di uccidere o essere ucciso alla guerra ed esigeranno la tua complicità per tramandare la tirannia che instaurarono nelle caverne. Eppure, o proprio per questo, essere un uomo sarà un’avventura altrettanto meravigliosa: un’impresa che non ti deluderà mai. Almeno lo spero perché, se nascerai uomo, spero che sarai un uomo come io l’ho sempre sognato: dolce coi deboli, feroce coi prepotenti, generoso con chi ti vuol bene, spietato con chi ti comanda. […]
Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uomo non significa avere una coda davanti: significa essere una persona. […] Se sarai una persona di cuore e di cervello, ricordalo, io non starò certo tra quelli che ti ingiungeranno di comportarti in un modo o nell’altro in quanto maschio o femmina. Ti chiederò solo di sfruttare bene il miracolo d’essere nato, di non cedere mai alla viltà. E’ una bestia che sta sempre in agguato, la viltà. Ci morde tutti, ogni giorno, e son pochi coloro che non si lasciano sbranare da lei. In nome della prudenza, in nome della convenienza, a volte della saggezza. Vili fino a quando un rischio li minaccia, gli umani diventan spavaldi dopo che il rischio è passato. Non dovrai evitare il rischio, mai: anche se la paura ti frena. […]
Forse è troppo presto per parlarti così. Forse dovrei tacerti per ora le brutture e le malinconie, raccontarti un mondo di innocenze e gaiezze. Ma sarebbe come attirarti in un inganno. Sarebbe come indurti a credere che la vita è un tappeto morbido sul quale si può camminare scalzi e non una strada di sassi, bambino. Sassi contro cui si inciampa, si cade, ci si ferisce. Sassi contro cui bisogna proteggersi con scarpe di ferro. E neanche questo basta perché, mentre proteggi i piedi, c’è sempre qualcuno che raccoglie una pietra per tirartela in testa.

*  *  *

Sono una donna che ha scelto di vivere da sola. Tuo padre non sta con me. E non me ne dolgo sebbene, ognitanto, il mio sguardo cerchi la porta da cui egli uscì, col suo passo deciso, senza che io lo fermassi, quasi non avessimo più nulla da dirci.

*  *   *
Stanotte ho parlato con tuo padre. Gli ho detto che c’eri. Gliel’ho detto al telefono perché si trova lontano e, a giudicare da quello che ho udito, non gli ho dato una buona notizia.  Ho udito, anzitutto, un profondo silenzio: neanche fosse caduta la comunicazione. E poi ho udito una voce che balbettava, roca: “Quanto ci vorrà?”. Gli ho risposto senza capire: “Nove mesi, suppongo. Anzi meno di otto, ormai”. E allora la voce ha smesso di essere roca per diventare stridula: “Parlo di denaro”. “Che denaro?” ho replicato. “Il denaro per disfarsene, no?” Sì, ha detto proprio “disfarsene”. Neanche tu fossi un fagotto. E quando, più serenamente possibile, gli ho spiegato che avevo tutt’altra intenzione, s’è perduto in un lungo ragionamento dove le preghiere si alternavano ai consigli, i consigli alle minacce, le minacce alle lusinghe. […] Io sorridevo, quasi divertita. Però mi sono divertita assai meno quando, incoraggiato dal fatto che ascoltassi zitta, ha concluso che la spesa potevamo sostenerla a metà: dopotutto eravamo “colpevoli entrambi”. Mi ha colto la nausea. Mi sono vergognata per lui. E ho abbassato il ricevitore pensando che un tempo lo amavo.

*  *  *

Io vi disprezzo. E disprezzo me stessa per non saper fare a meno di voi, per non gridarvi più spesso: siamo stanche d’esservi mamme. Siamo stanche di questa parola che avete santificata per il vostro interesse, il vostro egoismo. […] La maternità non è un dovere morale. Non è nemmeno un fatto biologico. E’ una scelta cosciente. Questa donna aveva fatto una scelta cosciente, e non voleva uccider nessuno. Era lei che voleva ucciderla, signor dottore, negandole perfino l’uso del proprio intelletto.

ORIANA FALLACI: “LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO”, Rizzoli, Milano, 1975

Brani tratti dalle pagine 7, 8, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 84, 85, 86

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